'Her', un film che si ispira al presente
‘Her’ è stato per me uno di quei film che lasciano qualcosa
e che alla fine non finiscono mai davvero perché sviluppano nella mente di chi
li vede un’idea, una considerazione, uno spunto per ricrearsi. Her è
l’esorcizzazione della società attuale che pensa di trovare la felicità nelle
relazioni virtuali, la prova del fallimento umano.
La grandezza di questo film credo sia in questo, nello sviluppare in modo quasi catartico la consapevolezza della fragilità dei rapporti umani, quasi un monito alle generazioni che rimangono sempre più abbagliate da come la tecnologia possa da un lato abbattere la solitudine, dall’altro acuirla.
Her è però anche la prova che innamorarsi significa essere pazzi. È un’idea comune quella secondo la quale per amare bisogna essere istintivi e fidarsi di sé, eliminare quella componente razionale che uccide l’amore. Innamorarsi di un sistema operativo significa innamorarsi dell’essenza di ‘qualcuno’, della componente del pensiero e della coscienza, far l’amore con la serenità e ricercare la gioia nel condividere anche solo un sorriso. Ci si innamora dell’idea che c’è qualcuno all’infuori di noi che ci ama e che sceglie di concederci la possibilità di farne di tutto eliminando il controllo che normalmente esercita ognuno su se stesso. Dimentichiamo per un attimo l’assurdità di un sistema operativo che può spezzare il cuore di un essere umano e pensiamo piuttosto alla situazione terribilmente vera, sia se si tratta di un computer sia di un animale sia di un oggetto a cui siamo affettivamente legati. Amare è anche quello, la paura di perdere la stabilità dei sentimenti che qualsiasi presenza della nostra vita è capace di darci. E’ quel senso di mancanza che minaccia l’egoismo di chi non desidera altro dalla sua vita e all’improvviso perde tutto. Viviamo di idee, ci sentiamo rassicurati all’idea di non essere soli, amiamo l’idea di stare bene e ambiamo all’idea di gioia. Quindi che sia una persona, un computer o qualsiasi altra cosa, che ci importa dell’autenticità delle relazioni se riusciamo ad imboccare la strada per la felicità?
Esce un nuovo sistema operativo capace di comunicare con
l’uomo, di provare sensazioni e fare delle scelte, insomma tutto ciò che
rappresenta la superiorità del genere umano sugli altri esseri, e la reazione
della gente qual è? Correre immediatamente a comprare un auricolare e il
dispositivo tale da azionare questo sistema operativo, rispondere a qualche
domanda e creare un avatar, una sorta di coscienza con cui parlare. E che succede
se ce ne si innamora?
Una cosa per volta.
Credo che ciò che abbia spinto tutta quella gente a
relazionarsi con una coscienza sia un po’ la curiosità, un po’ la solitudine.
Avete presente quel tipo di solitudine causato dalla perdita di punti fissi
nella propria esistenza? Ecco, quella è la peggiore. Porta l’uomo a essere di
una vulnerabilità tale da diventare incapace di ricreare rapporti sociali
fisici e rifugiarsi piuttosto in un apparecchio che si spegne e si riaccende
proprio come un computer. Si accende e si può dialogare con il sistema
operativo, si spegne e il nulla, sparito. Un rapporto ideale diremmo, in grado
di andare in stand-by in qualsiasi momento, invece di mettere
costantemente a dura prova la nostra
capacità nel prenderci cura di una relazione che abbia note stonate come
qualsiasi altra. Un sistema operativo tale da essere così vicino all’essere
umano che l’unica differenza consiste in un computer invece di un insieme di
cellule e un super cervello. E’ capace di ingelosirsi, piangere, divertirsi,
provare rabbia, dolore, angoscia, instaurare relazioni di amicizia, amore,
indifferenza. E combattere la solitudine quel poco che basta per sentirsi
meglio. E’ proprio questo il paradosso: come ci si può sentire meno soli
parlando con una ‘persona’ che nemmeno esiste? Oggi come ci si può sentire meno
soli comunicando con qualcuno attraverso un computer o un cellulare? Eppure
apparteniamo ad una generazione che preferiva messaggiare con un ragazzino piuttosto
che invitarlo ad uscire, che preferisce raccontare i propri problemi attraverso
un testo scritto e non a voce. E quel film mi ha fatto riflettere, non come
avrebbe riflettuto un anziano che non sa nemmeno cosa sia un computer perché lo
ha scoperto troppo tardi ma come una ragazza che ci è nata con la tecnologia.
Mi ha fatto pensare a quanto sia assurdo pretendere che una comunicazione
veloce ed efficiente come quella rimpiazzi un tipo di comunicazione fatta di
gesti, espressioni, toni di voce. Ho rivisto la mia generazione e quelle future
nel tentativo disperato di riuscire a provare emozioni forti rinunciando a
viverle e preferendo l’illusione della virtualità. Ci si innamora addirittura
di una voce al telefono o di un nome su un display, non accorgendoci di quanto
siamo impazienti di trovare qualcuno che ci dia affetto e che immancabilmente
scambiamo per l’amore della nostra vita o il nostro migliore amico. E come una
dipendenza ci sentiamo quasi assuefatti, nella realtà non sappiamo più nemmeno
abbracciare qualcuno perché non è più così semplice come scegliere l’emoticon
dell’abbraccio e spingere ‘Invia’, richiede uno sforzo maggiore, implica la
cooperazione di più muscoli. Per non parlare di quanto la tecnologia ci abbia
resi irascibili, pretenziosi, arroganti perché la stessa velocità con cui si
risponde ad un ‘ehi’ deve essere adoperata in qualsiasi altra situazione reale.
Siamo nati in un’epoca che ci ha diseducati al valore dell’attesa rendendoci
ancora più schiavi del tempo, come se non fosse abbastanza lo scandire di una
convenzione dell’uomo, dal momento che è questo l’insieme di minuti e ore.
La grandezza di questo film credo sia in questo, nello sviluppare in modo quasi catartico la consapevolezza della fragilità dei rapporti umani, quasi un monito alle generazioni che rimangono sempre più abbagliate da come la tecnologia possa da un lato abbattere la solitudine, dall’altro acuirla.
Her è però anche la prova che innamorarsi significa essere pazzi. È un’idea comune quella secondo la quale per amare bisogna essere istintivi e fidarsi di sé, eliminare quella componente razionale che uccide l’amore. Innamorarsi di un sistema operativo significa innamorarsi dell’essenza di ‘qualcuno’, della componente del pensiero e della coscienza, far l’amore con la serenità e ricercare la gioia nel condividere anche solo un sorriso. Ci si innamora dell’idea che c’è qualcuno all’infuori di noi che ci ama e che sceglie di concederci la possibilità di farne di tutto eliminando il controllo che normalmente esercita ognuno su se stesso. Dimentichiamo per un attimo l’assurdità di un sistema operativo che può spezzare il cuore di un essere umano e pensiamo piuttosto alla situazione terribilmente vera, sia se si tratta di un computer sia di un animale sia di un oggetto a cui siamo affettivamente legati. Amare è anche quello, la paura di perdere la stabilità dei sentimenti che qualsiasi presenza della nostra vita è capace di darci. E’ quel senso di mancanza che minaccia l’egoismo di chi non desidera altro dalla sua vita e all’improvviso perde tutto. Viviamo di idee, ci sentiamo rassicurati all’idea di non essere soli, amiamo l’idea di stare bene e ambiamo all’idea di gioia. Quindi che sia una persona, un computer o qualsiasi altra cosa, che ci importa dell’autenticità delle relazioni se riusciamo ad imboccare la strada per la felicità?
Non credo che il film abbia voluto far capire questo,
nonostante la relazione protagonista sia arrivata a questa conclusione. Il
finale poi ne ha capovolto quasi il messaggio.
E allora direi che è quasi un inno ai rapporti umani, quelli
veri e complicati perché non c’è nulla capace di rimpiazzare tutte le milioni
di informazioni che arrivano al nostro cervello e che provengono dal contatto fisico,
persino innamorarsi di una voce è stata la cosa più razionale in un film in cui
ogni cosa sfiorava il paradosso.
-Chiara Manicone
-Chiara Manicone
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